AL “PONTE
DELL’ARCOBALENO”
“Esiste un posto
speciale dove Cielo e Terra sono molto vicini.
E c’è un ponte
di sette colori che unisce questi due mondi: il Ponte dell’Arcobaleno. Proprio
accanto al Ponte c’è un meraviglioso giardino, pieno di fiori colorati e foglie
che brillano come gemme.
Qui regna
un’eterna primavera, giorni di sole caldo si alternano a dolci notti di cieli
stellati. E in questo giardino arrivano gli animali, quando muoiono.
E’ un luogo
davvero straordinario: ci sono prati e colline per tutti i nostri amici, così
che possano correre e giocare insieme.
C’è tanto cibo,
acqua e sole, ed essi sono al caldo e stanno bene.
Quelli che erano
vecchi e malati sono ora forti e vigorosi.
Quelli che erano
feriti o storpi sono di nuovo integri e forti, come noi li ricordiamo nel sogno
dei giorni e dei tempi passati.
Sono felici e
contenti, tranne che per una piccola cosa: ognuno di loro sente la mancanza di
qualcuno molto amato, qualcuno che ha dovuto lasciare indietro…
Corrono e
giocano insieme, ma un bel giorno uno di essi improvvisamente si ferma e guarda
lontano, verso l’orizzonte: i suoi occhi lucidi sono attenti, trema per
l’impazienza… tutt’a un tratto si stacca dal gruppo e comincia a correre,
volando sul verde prato, sempre più veloce.
Ti ha riconosciuto,
e quando finalmente sarete insieme, vi stringerete in un abbraccio pieno di
gioia, per non lasciarvi più.
Una pioggia di
baci felici bagnerà il tuo viso; le tue mani accarezzeranno di nuovo l’amata
testolina e fisserai ancora una volta i suoi fiduciosi occhietti, per tanto
tempo lontano dalla tua vita ma mai assenti dal tuo cuore.
Allora
attraverserete, insieme, il Ponte dell’Arcobaleno…”
Così
narra un’antica leggenda indiana (pellerossa), che si reperisce facilmente in
Internet, con poche varianti relative alla forma e ai termini, ma sempre uguale
nella sostanza.
E
in questa leggenda Joel aveva creduto, ciecamente, dopo aver perso il suo
cagnolino Yoda, un carlino che aveva letteralmente adorato per due mesi soli:
il povero piccolo, infatti, era volato via in una grigia notte di novembre,
consumato in ventiquattr’ore da una terribile infezione che non gli aveva
lasciato scampo.
Joel
aveva dovuto attaccarsi con tutte le sue forze al senso di responsabilità verso
le persone care, per evitare il desiderio di morire a sua volta. Era stata
durissima da sopportare, tanto dura che finalmente (dal suo punto di vista!)
sul letto di morte, Joel pensò che in fondo non ne era valsa la pena: quella fu
la sua ultima riflessione prima di abbandonare, per sempre, questo mondo.
* * *
…e
si ritrovò in una prateria verde, sconfinata, con una bellissima luce soffusa
che non sembrava però provenire da alcun sole, un’aria pura a fresca e una
temperatura ideale per il minimo vestiario che scoprì di indossare: una semplice
maglietta e calzoncini corti: “Molto sportivo l’aldilà… e anche casual…” fu la
prima reazione di Joel, che subito dopo cominciò a notare come il prato si
estendesse in tutte le direzioni, a perdita d’occhio, apparentemente senza
fine. Ma la sorpresa maggiore era quella di non vedere nient’altro, da nessuna
parte… Joel temette di essere piombato dritto dritto in una versione
dell’Inferno appositamente personalizzata per lui, che in vita aveva temuto
l’abbandono più di ogni altra cosa. Amareggiato, iniziò a camminare verso…
verso altro nulla, visto che in quel
luogo non era possibile percepire una direzione. Nemmeno l’ombra indicava
qualcosa, perché non vi era alcuna ombra. Joel si sentì tradito: perché nel
prato non c’era il Ponte? E l’arcobaleno? Era stato tutto un trucco allora? Una
leggenda offerta come consolazione per cercare di lenire le terribili
sofferenze causate dalla morte di un cucciolo?
“Dove
sei Manitù!!!” urlò “Fatti vedere, così posso dirtene quattro di persona…”
In
quel momento una grande mano gli si posò delicatamente sulla spalla: Joel
trasalì e per un attimo ebbe paura di voltarsi, temendo ciò che avrebbe visto…
lentamente si girò e… davanti a lui, dove un attimo prima non c’era nessuno, si
trovava ora un pellerossa.
Era
un uomo veramente imponente, vestito con un paio di pantaloni e mocassini di
pelle di bufalo, entrambi con moltissime frange; sul torace nudo si allargava
un gran pettorale di ossa, legno, perline, oro e argento, inverosimilmente
scintillante; i capelli nerissimi erano raccolti in due grosse trecce che
scendevano sin sotto la cintura, ove erano infilati da una parte un tomahawk
con la lama di pietra scolpita e dall’altra un lungo e variopinto calumet,
completo dei quattro nastri e della piuma tradizionale. Indossava inoltre il
famoso copricapo di penne dei grandi capi pellerossa, che gli incorniciava il
sereno, nobile volto, ed era lungo sino ai piedi; in mano stringeva una lunga
lancia con la punta di lucente ossidiana: in una parola, quello era sicuramente
l’essere più formidabile che Joel avesse mai visto. Ma più che l’aspetto, fu la
luce che sembrava irradiarsi dal suo viso a convincere Joel che non si trattava
di un capo indiano, ma di Manitù in persona.
Non
sapendo bene cosa fare o cosa l’altro si aspettasse, e non sapendo nemmeno in
quale persona rivolgersi al Dio, Joel assunse la posizione di “attenti” e
disse:
“Perdonami,
Grande Dio, io non so come rivolgermi a Te e nemmeno quali gesti rituali
compiere per onorarti degnamente… non so neppure se posso parlarTi per primo…
istruiscimi, Te ne prego.”
Manitù
lo guardò con infinita bontà e rispose: “Non temere, figlio mio, nessun rito da
compiere, e nessuno da onorare: IO sono onorato della tua presenza. Perché ti
trovi qui?”
“Anni
fa avevo letto la leggenda del Ponte dell’Arcobaleno, dove tutti i nostri Amici
si ritrovano in attesa che i loro Amici umani li raggiungano.”
“Gli
animali intendi?” domandò Manitù.
“Non
uso mai quella parola, soprattutto se mi riferisco ad Amici che tanto amore
ricevono e danno, sempre e dappertutto” rispose Joel.
“Vedi,
figlio mio” proseguì il Dio “non a tutti è concesso di vedere il Ponte, e anzi,
tu sei il primo, da molto tempo, che riesce a trovare questa prateria. La
maggior parte del genere umano non crede alla leggenda e, ad ogni modo, non ha
alcun interesse a ritrovarsi qui.”
“Ma
io ho vissuto per anni nella speranza di arrivare in questo posto, l’unica cosa
che mi dava sollievo era la convinzione di trovare il Ponte e…” e un singhiozzo
gli troncò la voce.
“Lo
so, figlio mio” riprese Manitù “io vedo e sento, alla pari di tutti gli altri
Dei, qualsiasi pensiero provenga dal Regno Animale, Vegetale o Minerale. E
poiché la tua fede ha trasceso quel che ti imponeva la tua religione, poiché
sei riuscito ad oltrepassare quel che il tuo Dio geloso ti vietava, ecco la tua
ricompensa. Voltati adesso: ecco il Ponte!”
Joel
si rigirò velocemente e rimase letteralmente sbalordito.
Davanti
a lui c’era il primo gradino di una larga scala dorata, che saliva e poi
discendeva, a formare il Ponte: la parte discendente terminava in una nuvola,
ed era impossibile vedere cosa ci fosse dall’altra parte. L’Arcobaleno,
talmente luminoso da sembrare solido, si accompagnava armoniosamente al Ponte
nella salita e nella discesa.
“Ecco
il Ponte dell’Arcobaleno” ripetè Manitù “devi solo attraversarlo; dall’altra
parte troverai i tuoi genitori, i tuoi parenti, i tuoi amici, tutte le persone
che hai amato in vita e che in vita ti hanno amato. E potrai godere della
felicità eterna…”
Ma
Joel non si muoveva e continuava a guardarsi intorno.
“Che
c’è, figlio mio? Perché non attraversi? Cosa aspetti?” domandò ancora il Dio.
“Non
posso, Grande Dio, non posso, la mia speranza era di ritrovare qui il mio
Amico, anzi i miei Amici, quelli a quattro e a due zampe… non potrei mai essere
felice senza di loro…”
“Figlio
mio, questo è molto più difficile. Come ti ho già detto, nei secoli la gente ha
smesso di credere in me, e i miei poteri sono andati scemando in proporzione.
Ho ancora il potere di far apparire il ponte, ma non quello di tenere qui tutti
gli… Amici degli umani. Per questo servirebbe molto di più… tante persone
dovrebbero credere ancora nella leggenda del Ponte… credo che faresti meglio ad
attraversare ora…”
Joel
guardò il Dio e fece un mezzo sorrisetto. Poi, con molta naturalezza, si
sedette comodamente sul primo gradino del Ponte, posò i gomiti sulle ginocchia
ed il viso tra le mani.
“Aspetterò”
disse “sulla Terra molti hanno cominciato a credere alla leggenda, che a quanto
vedo non è una leggenda. Ormai non ho paura di morire perché sono già morto, e
Ti ripeto che non vi può essere per me felicità senza i miei Amici.”
Detto
questo, Joel distolse lo sguardo dal Dio e cominciò a guardare davanti a sé la
sconfinata estensione della prateria, con aria molto ostinata.
Manitù
sorrise, strinse la lancia, la alzò tenendola orizzontale sulla testa e disse:
“Attendi allora, figlio mio, la tua attesa non sarà così lunga. Io, il Grande
Manitù, ti ringrazio per la tua fede e il tuo amore verso i tuoi Amici.” …e
disparve.
Joel
udì un rumore che assomigliava al rombo di un tuono e in lontananza vide
qualcosa che si avvicinava e che presto lo avrebbe sommerso: riuscì solo a
distinguere una distesa di teste, una marea di zampette che si agitavano
freneticamente, una foresta immensa di code e codine che frustavano l’aria… poi
gli occhi gli si riempirono di lacrime e non potè vedere più nulla.
Ma
non aveva bisogno degli occhi: la vista del cuore gli aveva già mostrato chi
stava arrivando…